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Il Castello Normanno Svevo

Gli Svevi: Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, sposò la principessa normanna, Costanza d’Altavilla. Dal loro matrimonio nacque Federico II, il sovrano più famoso della dinastia degli Hohenstaufen che scelse come sede imperiale Palermo dove fondò la scuola siciliana e dove è sepolto, con la madre, nel Duomo I Pignatelli: alcuni li fanno discendere da Landolfo, soldato di re Ruggero, altri da Gisulfo, comandante della flotta dello stesso re contro i greci nella battaglia di Negroponte che egli vinse grazie al lancio di fuochi racchiusi in certe pentole (pignatte), da cui deriverebbe il nome e le tre pignatte dello stemma d’oro con tre pignatte nere poste sotto al labello a tre pendenti rossi. Da Riccardo nel 1250, la famiglia si ramificò e un ceppo resse il ducato di Monteleone. Un altro si trasferì a Napoli e da qui passò a Tropea nella I metà del XIV secolo. Storia della costruzione Fu in origine una torre, di forma esagonale, che il Conte Ruggero il Normanno detto il Bosso, volle innalzare, come baluardo di difesa per la città “provata” dalle scorrerie saracene. La realizzazione del Castello, in effetti, rientrava in una linea urbanistica di fortificazioni di castelli nei punti più strategicamente importanti per assicurarsi il dominio sulla regione. La costruzione muterà il suo aspetto fra il 1233 e il 1237 con Federico II di Svevia, che vi aggiungerà altri baluardi facendone assumere la forma “a castello”. Gli Angioini, subentrati alla dinastia degli Hohenstaufen vi aggiunsero uno sperone triangolare che fecero congiungere alle mura della città, coordinandolo con un sistema di fortilizi sorgenti lungo la cinta di mura. Poi, per lungo tempo, vi presero dimora i Pignatelli (dei quali porta ancora lo stemma sull’ingresso principale) che vi fecero costruire carceri tenebrose e trabocchetti. Vennero aperte due porte, una sul prospetto che guarda a mezzogiorno, con un’entrata carrozzabile ed una a ponente, in mezzo alle due torri mediane, alle quali fu anteposta una spianata a mezzaluna; questa era accessibile tramite due spaziose scale laterali, delle quali esistono tracce solo della rampa di sinistra. Una porta angioina è verso nord-est; quantunque murata, essa mostra ancora la sua linea alquanto ogivale. Il terremoto del 1783 arrecò delle lesioni ai muri, tali da renderlo inagibile. Il secondo piano venne allora demolito ad opera dei Pignatelli e successivamente dai Borboni. Fu riadattato nel 1858-59, ma nel settembre del 1860 fu devastato da alcuni monteleonesi che si impadronirono delle vettovaglie e munizioni contenute nei magazzini, arrecando così gravi danni alle porte, finestre e tetti. Restaurato in epoca recente ospita il Museo archeologico cittadino V. Capialbi facente parte del Polo Museale della Calabria e nella sua corte ospita suggestive rappresentazioni teatrali e concerti. Il Museo, istituito nel 1969 e intitolato al conte Vito Capialbi (1790-1853) erudito che per primo raccolse le testimonianze archeologiche della città. I materiali esposti provengono dagli scavi effettuati da Paolo Orsi nel 1921 a cui si aggiunsero le raccolte Capialbi (con il ricco monetiere che rappresenta un riferimento numismatico tra i più importanti in Calabria), Cordopatri e Albanese. Dall’età greca (piano terra e primo piano) a quella romana e medioevale (piano terra) il museo segue criteri cronologici e topografici come quelli derivanti dall’area sacra di Scrimbia fine del VII e la fine del V secolo a.C.: ceramiche corinzie, rodie e attiche, anche di grandi dimensioni, bacili ed elmi in bronzo, statuette votive e oreficerie di notevole qualità, tra cui orecchini, anelli, fibule, spilloni. Frammenti architettonici di un grande tempio dorico, databili intorno al 550 a.C. Dall’area Cofino provengono alcuni pinakes, due modellini di tempio in terracotta. Il piano terra espone reperti ritrovati nelle necropoli di Hipponion (fine VII - IV secolo a.C.), tra i quali spicca il pezzo più importante, la laminetta aurea attestante il culto orfico con un'iscrizione in dorico-ionico che fornisce consigli per il passaggio del defunto nel mondo dei morti. L'itinerario prosegue con i materiali di età romana. Di notevole fattura le statue di togati e la testa in marmo di Agrippa, alcuni corredi sepolcrali con lucerne dalle decorazioni molto raffinate, contenitori e unguentari in vetro di pregevole fattura. Una sezione di archeologia subacquea presenta la ricostruzione parziale della chiglia di un'imbarcazione e alcune anfore, ancore di diverse epoche rinvenute in buona parte nei fondali vibonesi. Fonti: MIBACT- “Vibo, città d’arte. Antichi palazzi da riscoprire” Liceo Statale V. Capialbi- Coordinatrice Prof.ssa Daniela Rotino Utilità: App VISA-Museo Vito Capialbi