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MARCHESI DI MONFERRATO

Approfondimento

Approfondimento: MARCHESI DI MONFERRATO

Casata aleramica che occupò un territorio non ben definibile, agli inizi, per la sua estensione geografica e affermato in modo stabile soltanto a partire dal Duecento. Dal 967, anno della concessione da parte di Ottone I ad Aleramo di quindici corti e della conferma di altri beni già in suo possesso in diversi comitati dell'Italia settentrionale, si cita il comitato di Montisferrati, compreso appunto fra quelli. Dal XIII secolo, al Monferrato si aggiunse una serie di territori pedemontani, che dall'odierno Monferrato si estendevano all'eporediese, all'astigiano, all'alessandrino e all'acquese, al vercellese, al cuneese, al torinese, fino a giungere all'imbocco della Valle di Susa, ai limiti della zona di monopolio sabaudo sulla via francigena: esistevano tutte le condizioni per creare una signoria regionale. Nel tempo il marchesato avrebbe tenuto costante la caratteristica di signoria rurale mentre dal punto di vista strutturale-geografico sarebbe stato segnato da incongruenze che ne avrebbero originato la debolezza. Queste furono dovute a un'espansione territoriale lenta e irregolare, ottenuta in ottemperanza a esigenze familiari sempre diverse e con i modi di una signoria arcaica, benché animata da disinvoltura di iniziative; la costante fedeltà all'Impero fu un'altra causa che contribuì a insidiare la stabilità del marchesato, sebbene per certi versi abbia costituito anche il sostegno di quell'organismo ipertrofico e pur debole rappresentato dai possedimenti dei Monferrato; questo dovette la sua stabilità e unità alla legge, che veniva rispettata in maniera rigida, della primogenitura e dell'indivisibilità dei beni. Figura di rilievo nella famiglia fu quella di Guglielmo VII (figlio di Bonifacio II), che riuscì a imprimere un carattere di unitarietà, uniformità e omogeneità a quel territorio compreso tra gli Appennini liguri, Acqui e l'alto corso del Po, anche se non si deve dimenticare la fretta e l'improvvisazione con cui agì, che furono all'origine della generale precarietà del marchesato. Le differenze dal punto di vista della tipologia politica, quelle economiche, la posizione esterna rispetto ai territori del punto di riferimento gestionale (Chivasso) determinavano la debolezza nel tentativo da parte della famiglia di collegare luoghi così diversi fra loro. Dal punto di vista politico-giurisdizionale la forma di signoria monferrina risultava meno oppressiva e dunque più accettabile di quella delle singole giurisdizioni locali; il continuo intreccio di aggregazioni e di disgregazioni interne a questo collegamento favorì, però, la nascita di una gerarchia interna del gruppo, che fu all'origine dello scioglimento delle città più forti dal dominio monferrino (come nel caso di Alessandria, Ivrea, Mondovì, Novara, Vercelli e Voghera) o della loro affermazione sulle entità minori, che via via divennero quasi soggette. A uno statico ceto dirigente, che poteva contare sull'appoggio della signoria sabauda, si contrapponevano quegli uomini nuovi da poco inurbatisi, fautori della signoria monferrina: ciò risultò evidente soprattutto dal XIV secolo, quando nelle insorgenze antisabaude solitamente si coinvolgevano i Monferrato, che venivano giudicati come più esperti della società piemontese; ciò anche per il loro esercizio di potere, che spesso si avvaleva di uomini del luogo per occupare le cariche direzionali, senza con ciò creare una tipologia del ceto dirigente inalterabile ma, anzi, aprendo anche a chi fosse da poco inurbato le porte del gruppo degli influenti di un luogo. L'esercizio non soltanto indiretto ma anche blando dei diritti signoriali da parte della famiglia, le idee dichiarate in merito all'indipendenza dei vari comuni, l'apertura nei confronti delle istanze di tutti i ceti sociali distinguevano i Monferrato dai Savoia, che però poterono contare su una struttura militare e burocratica più solida che contribuì alla loro affermazione durevole. Altro elemento di debolezza fu nella mancanza di una struttura che con costanza si occupasse di organizzare e difendere domini tanto frammentati e minati dalle signorie che cercavano di prendere il sopravvento in area pedemontana. Guglielmo VII il Grande ebbe il merito di convogliare numerose forze signorili e cittadine della zona occidentale padana, che avevano il comune intento di ottenere istituzioni più stabili e durature; se agli occhi di quei signori Guglielmo riuscì a rappresentare un punto di riferimento, meno influenzabili risultarono i suoi successori, che non riuscirono a continuare la sua politica troppo trepidante e velleitaria. Guglielmo trovò un ambiente storico favorevole anche nei rapporti di contrapposizione fra i comuni pedemontani e gli Angiò, rispetto ai quali presentava il vantaggio di origini autoctone, che gli consentivano di conoscere bene ogni aspetto di quell'area pedemontana. Le indubbie capacità di Guglielmo si sovrapposero a questa situazione: confermando in pieno le sue caratteristiche di vero signore del tardo medioevo, riuscì a dare impulso alla trasformazione dei liberi comuni in entità a gestione signoriale senza provocare reazioni e guadagnandosi le simpatie locali. Grazie a lui la vita tumultuosa di tanti comuni trovò un motivo di pacificazione nel governo dei rappresentanti del marchese, che, pur tenendo d'occhio l'esigenza di libertà delle realtà locali, lasciarono da parte gli interessi individuali di gruppi e famiglie che già avevano ottenuto affermazione nella vita pubblica. Nella politica estera Guglielmo dovette inserirsi nel gioco di alleanze e diversità di atteggiamenti richiesto dal quadro europeo, che gli imponeva contatti con Impero, papato, Angioini e Aragonesi; altrettanto indecisa e mutevole appare la sua politica interna, che lo vide fronteggiare i nobili e quegli "uomini nuovi" che cercavano una posizione nel ceto dirigente come quelli già inseriti nella vita politica; il suo merito è, però, nell'aver garantito ai territori a lui sottomessi quell'organizzazione statuale, che dovette la solidità all'abilità del marchese in campo militare e diplomatico. Fino al 1275 (primo periodo angioino) Guglielmo trovò un'intesa con Carlo d'Angiò in una divisione di competenze e interessi, soprattutto nel Piemonte occidentale, ottenuta in maniera pacifica con una soluzione ponderata ed equa. Per evitare che le recenti conquiste degli Angioini, già forti del controllo delle vie di traffico orientate alla Francia meridionale, costituissero un elemento di debolezza per il Monferrato, Guglielmo nello stesso tempo riuscì a tessere una tela antiangioina: si alleò con Manfredi di Sicilia e con Alfonso di Castiglia (così tentando anche di espandersi verso il canavese, in gran parte monferrino dal XIII secolo, il Lanzo e le sue valli e, in particolar modo, verso Tortona, punto nodale delle vie di comunicazione verso l'oltregiogo appenninico). Per quanto pericolosa, anche perché gli attirò ritorsioni ecclesiastiche, tra le quali la scomunica, questa politica precedette la sconfitta dei d'Angiò a Roccavione, che consentì a Guglielmo di impossessarsi delle zone lasciate vuote dagli Angioini: Torino, Vercelli, Alessandria, Acqui, Casale, oltre a numerosi territori minori. Se l'audacia di Guglielmo e il vuoto di potere in alcune zone dell'area pedemontana crearono le condizioni favorevoli per la costituzione di uno stato signoriale unitario sotto i Monferrato, le condizioni esogene non erano tali da favorire una definitiva affermazione di una signoria, come invece sarebbe accaduto un secolo dopo, con l'affermazione sabauda: la disgregazione dei comuni pedemontani non era ancora sfruttabile in maniera così determinante: lo dimostrò ben presto proprio la reazione delle forze comunali all'eccessiva potenza che Guglielmo si era conquistata. L'occupazione del triangolo strategico Torino-Alessandria-Ivrea, dal quale i Monferrato potevano controllare il commercio e le dogane di quasi tutte le merci, destò le preoccupazioni degli astigiani, che trovarono un alleato in Tommaso III di Savoia; Guglielmo nel frattempo si era fatto signore di Milano, Como, Pavia e controllava una lega di comuni lombardi, in ottemperanza al suo antico disegno di una signoria interregionale. Malgrado una situazione tanto favorevole, egli non seppe trarne il giusto vantaggio e cadde vittima degli alessandrini, che lo chiusero in prigione fino alla morte. La dinastia aleramica si avviò alla fine, per estinguersi definitivamente con Giovanni I, figlio di Guglielmo, che morì senza lasciare eredi diretti. Benché avesse tentato di vendicare la fine indecorosa del padre egli, sposata Margherita di Savoia, figlia di Amedeo V, non ebbe risorse finanziarie: garantì come controdote con i castelli e le terre di Caselle, Ciriè e Lanzo, includendovi i diritti signorili relativi. Nel 1300 Margherita ricevette il giuramento di fedeltà dai sudditi di quei luoghi e, alla morte prematura del marito, nel 1305, si vide assegnare la castellania di quelle terre, con atto rogato a Chivasso da parte del consiglio di Monferrato, presieduto da Manfredi IV di Saluzzo. In mancanza di eredi diretti il marchesato vide fallito il disegno di stabilire una signoria monferrina, per l'estinzione della famiglia aleramica. V. anche EPOREDIESE

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